Enti locali

Sistemi di affidamento degli incarichi legali: tema di grande attualità e rilevanza pratica, reso tale dal diffuso orientamento degli enti locali di procedere all’affidamento di un incarico legale dopo aver esperito una procedura comparativa tra alcuni professionisti (di solito in numero di tre) iscritti nell’apposito albo comunale, ai quali viene inoltrato l’invito a presentare – entro un breve tassativo termine – una proposta di preventivo di parcella, all’esito della quale si procede all’affidamento dell’incarico al professionista che avrà formulato un’offerta con il prezzo più basso.
Un tale modo di procedere viene giustificato con il richiamo al combinato disposto dell’art. 17 del D.Lgs. n. 50/2016, per il quale le disposizioni del codice dei contratti pubblici non si applicano agli appalti dei principali servizi legali (rappresentanza in giudizio o in arbitrato, consulenza), con il precedente art. 4, secondo cui l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture esclusi dall'ambito di applicazione del codice avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.
Da qui l’obbligo di procedere attraverso una procedura comparativa.
In realtà, le critiche a un simile orientamento poggiano su diversi argomenti: (i) prevalenza dell’art. 36, c. 2, lett. b), del D.Lgs. n. 50/2016 (che per affidamenti inferiori a € 40.000 prevede l’affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici) rispetto al precedente art. 4 (rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, etc.), essendo quest’ultimo una norma di chiusura del sistema che assicura un minimum di imparzialità anche per i casi esclusi dal codice dei contratti, quindi dotato di valore residuale e suppletivo rispetto alla disciplina organica del codice, così da non potersi tradurre in precetti più incisivi e gravosi di quelli espressi all’interno di esso; (ii) non utilizzabilità del criterio del prezzo più basso in termini assoluti perché contrario ai principi dello stesso  codice dei contratti, il quale nel regolare tale criterio individua come indice di congruità, all’art. 97, la media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte, a volte con esclusione di una percentuale di offerte di maggiore e di minore ribasso (c.d. taglio delle ali), così da escludere in radice che il maggior ribasso in assoluto possa essere premiato come migliore offerta; (iii) il criterio di scelta dell’offerta con l’importo più basso non costituisce un principio affermato nemmeno dall’Anac, posto che le relative Linee guida (24.10.2018) hanno precisato, da un lato, che le amministrazioni sono tenute ad accertare la congruità e l’equità del compenso nel rispetto dei parametri stabiliti dal D.M. n. 55/2014, dall’altro, che il risparmio di spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione; (iv) le Linee guida Anac hanno invece individuato un nucleo di possibili elementi alternativi di valutazione: il confronto con la spesa per precedenti affidamenti; gli oneri riconosciuti da altre amministrazioni per incarichi analoghi; i parametri fissati nel D.M. n. 55/2014; la valutazione comparativa di due o più preventivi, che non si traduce per forza nella scelta dell’offerta con il minor prezzo (sarebbe più congrua quella maggiormente vicina alla media); la presenza di un pregresso contenzioso nella stessa materia conclusosi con esito positivo per l’amministrazione; (v) affermazione del principio per cui, in caso di consequenzialità tra incarichi (v. i diversi gradi di giudizio) o di loro complementarietà con altri concernenti la medesima materia e specie se positivamente conclusi, l’affidamento diretto al medesimo professionista risponde ai principi di efficienza ed efficacia e, quindi, al migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico; (vi) in caso di utilizzo indiscriminato del criterio del prezzo più basso, violazione della disciplina sull’equo compenso, che considera tale quello conforme ai parametri previsti dal D.M. n. 55/2014; (vii) necessaria differenza di disciplina tra incarico di consulenza e assistenza a contenuto composito e continuativo e incarico singolo di patrocinio legale riconnesso alla necessità contingente, risultando quest’ultimo caratterizzato – alla luce della aleatorietà dell’iter del giudizio – dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della relativa prestazione, determinando tutto ciò anche l’assenza di basi oggettive sulle quali fissare i criteri di valutazione necessari secondo quanto richiesto dal codice dei contratti; (viii) affermazione del principio secondo cui, nella fase di valutazione dell’offerta, il curriculum non può avere alcun valore, riguardando esso i “requisiti di partecipazione alla gara” e non già gli “elementi oggettivi di valutazione dell’offerta”, in relazione ai quali opera tra le due categorie un assoluto divieto di commistione, cosicché solo questi ultimi possono essere previamente individuati dal comune ai fini dell’attribuzione di un punteggio.
 
Ordinanze contingibili e urgenti: costituiscono espressione di un potere extra ordinem attribuito dalla legge al sindaco quale rappresentante della comunità locale per far fronte ai casi di emergenza sanitaria o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale (art. 50, c. 5, del D.Lgs. n. 267/2000) ovvero quale ufficiale del Governo al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54, c. 4), con l’ulteriore precisazione, per questo secondo caso, che i provvedimenti concernenti l’“incolumità pubblica” sono diretti a tutelare l'integrità fisica della popolazione, mentre quelli relativi alla “sicurezza urbana” sono diretti a prevenire e contrastare l'insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l'illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all'abuso di alcool o all'uso di sostanze stupefacenti (art. 54, c. 4-bis).
Nella categoria generale delle ordinanze opera la distinzione tra ordinanze di “necessità”, che costituiscono atti tipici, predeterminati nel loro contenuto e negli altri elementi essenziali, e ordinanze di “necessità e urgenza”, il cui contenuto non è invece predeterminato, pur non essendo del tutto libero, in quanto rimane conformato in astratto dal fine per cui è attribuito il relativo potere, tale dunque da dover risultare coerente con lo specifico presupposto oggettivo. Da ciò discende che l'ordinanza di necessità e urgenza può essere emanata solo nei casi in cui l'ordinamento non abbia previsto altro possibile strumento adatto alla situazione concreta, trattandosi di un rimedio eccezionale e residuale avente i caratteri dell’atipicità e dell’indeterminatezza, i quali sono appunto funzionali all’elasticità dei possibili contenuti che la stessa può rivestire.
Trattandosi di un potere extra ordinem, il suo concreto esercizio deve essere circoscritto a casi eccezionali rigorosamente definiti dai presupposti della contingibilità e dell'urgenza, riconducibili a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento; i relativi provvedimenti sono perciò destinati a produrre effetti provvisori e temporanei, di portata proporzionale rispetto al pericolo che gli stessi intendono superare.
Un tratto caratteristico dell’ordinanza contingibile e urgente è che, di fronte all’urgenza di provvedere all’eliminazione della situazione di pericolo, la stessa prescinde dall’accertamento dell’eventuale responsabilità della causazione di quest’ultimo non avendo essa natura sanzionatoria, cosicché, ai fini della sua adozione, non rileva chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è volto ad affrontare. 
 
Riparto di competenze tra organi e uffici: la disciplina prevista per gli enti locali dall’art. 51 della L. n. 142/1990 e dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000, che ha stabilito la ripartizione tra compiti di governo, indirizzo e controllo (spettanti agli organi politici elettivi) e compiti di gestione (spettanti ai dirigenti) costituisce la struttura fondante dell’intera riforma delle autonomie locali e dunque “norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica”, che funge da limite all’esercizio della potestà legislativa primaria di alcune regioni. 
In virtà di tale disciplina, ai dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di indirizzo politico; in particolare, l’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000 dispone che gli statuti ed i regolamenti si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica compete in via esclusiva ai dirigenti; a sua volta l’attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del comune, si traduce nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione. Nel dettaglio, operano i seguenti criteri: (a) la competenza attribuita ai consigli comunali deve intendersi circoscritta agli atti fondamentali dell'ente, di natura programmatoria o aventi un elevato contenuto di indirizzo politico, essendo l’organo elettivo chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti tassativamente elencati nell'art. 42 del D.Lgs. n. 267/2000, definiti “fondamentali” dal legislatore proprio per segnalarne il carattere significativo e qualificante per la vita e l'organizzazione dell'ente, i quali richiedono la valutazione del massimo organo; (b) nell’attuale sistema legislativo, la giunta comunale è l'organo politico esecutivo che compie gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze del sindaco, del segretario o dei dirigenti, risultando la stessa titolare di una competenza generale e residuale; (c) poiché sia la giunta che i dirigenti sono destinatari di funzioni lato sensu esecutive dell'indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze è da individuarsi nella diversa natura dei due organi e nel principio di separazione tra attività politica e attività gestionale: la giunta è un organo di governo dell'ente locale e svolge pertanto una funzione di attuazione politica delle scelte fondamentali operate dal consiglio, mentre ai dirigenti compete l'attività di gestione tecnica-finanziaria-contabile e l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o atti di diritto privato, necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo.
La ripartizione di funzioni amministrative operata dalla normativa di settore ha ricevuto da tempo automatica applicazione, ragion per cui qualsiasi disposizione di regolamento comunale che si ponga in difformità da questa, specie perché introdotta prima della riforma della materia, deve essere disapplicata (anche dal giudice amministrativo) in quanto in contrasto con la normativa di rango primario. 
 
Incompatibilità di amministratori locali su specifico oggetto e obbligo di astensione: principale norma di riferimento è data dall’art. 77 del D.Lgs. n. 267/2000, il quale stabilisce l’obbligo di astensione dal prendere parte alla discussione e alla votazione delle delibere riguardanti interessi propri o di propri parenti o affini entro il quarto grado, fatta eccezione per i provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o degli altri soggetti a lui vicini.
L’astensione del consigliere comunale dalle delibere adottate dall’organo collegiale trova applicazione tutte le volte in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con il concetto di “interesse” da riferirsi a ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, trovando dunque affermazione la regola generale per cui l’amministratore deve astenersi al minimo indizio di un conflitto di interessi, reale o potenziale che sia.
In particolare, l’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l’interessato rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un pregiudizio per la p.a. né che l’organo consiliare abbia proceduto in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, dal momento che l’obbligo di astensione per incompatibilità è espressione del principio di imparzialità e trasparenza (art. 97 Cost.) al quale ogni amministrazione deve conformare la propria immagine prima ancora che la propria azione.
Pertanto, sia nella fase di discussione che di votazione, in cui deve essere salvaguardata l’imparzialità e la serenità di giudizio dei componenti l’organo deliberante, la mera presenza dell’interessato non può che essere presuntivamente considerata quale fonte di perturbazione del processo logico-valutativo che è alla base del provvedimento collegiale; da ciò consegue l’irrilevanza della c.d. prova di resistenza ai fini della legittimità della delibera assunta con la presenza alla seduta del soggetto in situazione di incompatibilità. 
 
Incompatibilità di amministratori locali e decadenza dalla carica: istituto regolato dagli artt. 63 e ss. del D.Lgs. n. 267/2000, i quali stabiliscono il divieto di ricoprire la carica di sindaco o consigliere comunale per alcune categorie di soggetti e per specifiche fattispecie ad essi inerenti, che si sostanziano, in generale, in particolari ruoli o funzioni rivestiti nell’ambito di enti o aziende soggetti alla vigilanza del comune o che sono affidatari di appalti nell’interesse del medesimo, ovvero svolgono la loro attività professionale in favore delle imprese di cui sopra, oppure hanno una lite pendente con il comune, nonché in ulteriori ipotesi.
La sussistenza di una causa di incompatibilità mette in moto un’apposita sequenza di atti,  adottabili d’ufficio o su istanza di qualsiasi elettore, in particolare (i) la contestazione all’interessato della causa di incompatibilità da parte del consiglio comunale, (ii) l’attribuzione al medesimo di un termine per presentare osservazioni oppure per eliminare la causa di incompatibilità, (iii) la delibera definitiva del consiglio comunale sulla sussistenza o meno dell’incompatibilità, con invito all’interessato – in caso di riscontro positivo – di rimuovere la causa oppure di esprimere l’opzione per la carica da conservare, (iv) la dichiarazione di decadenza da parte del consiglio, qualora l’interessato non si attivi nei modi precedenti, (v) l’impugnazione dinanzi al Tribunale civile della delibera consiliare dichiarativa della decadenza.
 
Deliberazioni degli organi collegiali: sono rette da alcune regole generali, tutte improntate alla tutela dei superiori principi di imparzialità, trasparenza ed efficacia dell’azione amministrativa.
A) Un’ipotesi di particolare interesse è quella della presenza, in una seduta consiliare preordinata  all’approvazione del Puc, di alcuni componenti che vantino un concreto interesse alla relativa deliberazione, determinando ciò una situazione di incompatibilità ex art. 77 del D.Lgs. n. 267/2000. In questi casi, anche al fine di superare una situazione di stallo generale che verrebbe altrimenti a verificarsi, specie nei piccoli comuni, viene considerato legittimo procedere a votazioni frazionate su singole componenti del piano, di volta in volta senza la presenza dei consiglieri potenzialmente interessati, per poi effettuare la votazione unitaria finale delle diverse parti sulle quali si è già formata la volontà consiliare, in modo da conciliare l'obbligo di astensione con l'esigenza – espressione del principio di democraticità – di evitare il ricorso sistematico al commissario ad acta.
B) Specifica importanza assume, nell’adozione di ogni delibera di giunta e di consiglio comunale, l’acquisizione dei pareri di “regolarità tecnica” ed eventualmente di “regolarità contabile”, i quali si caratterizzano per i seguenti aspetti: a) carattere obbligatorio dei pareri (art. 49, c. 1); b) loro rilevanza ai fini dei “controlli interni” (art. 147-bis); c) autonoma responsabilizzazione, sul piano amministrativo e contabile, dei soggetti chiamati a formularli (art. 49, c. 3); d) loro attitudine condizionante, in quanto l’organo deliberante può discostarsene solo attraverso una qualificata e specifica motivazione; e) loro rilevanza nelle situazioni di conflitto di interessi, in quanto il titolare dell’ufficio è tenuto in tal caso ad astenersi dall’adottare il parere, segnalando ogni situazione di conflitto anche potenziale (art. 6-bis della L. n. 241/1990).
 
Commissario ad acta: si compone di due distinte figure, (a) il commissario straordinario, che viene nominato per sostituire, esercitando competenze generali, un organo del quale manchi radicalmente il funzionamento, come avviene nel caso di scioglimento degli organi ordinari di un comune; esso riveste la qualifica di organo straordinario dell’ente sostituito, cui vanno imputati gli effetti degli atti da questo adottati; (b) il commissario ad acta in senso stretto, che viene nominato da altra autorità amministrativa o talvolta dal  giudice per provvedere all’emanazione di specifici atti non adottati dall’amministrazione competente, al quale vengono attribuiti i compiti circoscritti a tale specifica funzione, con la conseguenza che l’ente sostituito conserva in generale la titolarità dei suoi poteri salvi i singoli affari che gli sono stati sottratti. In termini di competenza ciò significa che i provvedimenti del commissario ad acta sono da imputarsi esclusivamente all’amministrazione sostituita, posto che la sua nomina da parte di un’altra autorità amministrativa (o talvolta dal giudice) supplisce a un’omissione da parte della prima, che però non viene privata della sua competenza a favore dell’altra.
E’ sorta da tempo una dibattuta questione volta a individuare chi sia il titolare del potere di annullare in via amministrativa gli atti del commissario ad acta, che ha trovato di recente l’adesione alla tesi per cui l’amministrazione sostituita vanta il potere di agire in autotutela nei confronti del provvedimento adottato dal commissario ad acta nominato dall’amministrazione investita dalla legge del potere sostitutivo, quale estrinsecazione del principio di continuità dell’azione amministrativa, a cui si correla invece la preclusione a ricorrere all’autorità giudiziaria, ponendosi ciò in violazione del divieto di venire contra factum proprium.

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