Espropriazione per pubblica utilità

Opposizione alla stima delle indennità di occupazione e di esproprio: costituisce il rimedio giudiziale ordinario attribuito dalla legge ai proprietari delle aree assoggettate a procedura espropriativa che intendono contestare il valore delle indennità di occupazione legittima ovvero di espropriazione legittima. La cognizione delle relative cause è devoluta alla competenza funzionale della Corte d’appello, che decide come giudice in unico grado, mentre ogni differente aspetto della medesima vicenda espropriativa che determini pretese risarcitorie (e non indennitarie) trova la sua definizione dinanzi al giudice amministrativo, così da generare un possibile frazionamento tra giudici diversi delle due distinte domande.
Dal punto di vista del procedimento, l’eventuale riconoscimento in sede giudiziale di una somma maggiore di quella attribuita dall’ente espropriante si traduce non già nell’attribuzione diretta della stessa all’interessato ma nel relativo deposito presso la Cassa DD.PP., che provvederà poi allo svincolo nei confronti dell’avente diritto come previsto dalla normativa sulle espropriazioni. 
L’opposizione in giudizio all’indenità di occupazione o di esproprio è sottoposta al breve termine di decadenza di 30 giorni, decorrente dalla notifica del decreto di occupazione o di espropriazione purché contenente la quantificazione dell’indennità definitiva, non essendo sufficiente la comunicazione della sola indennità provvisoria, che si colloca all’interno del procedimento espropriativo e non si dimostra idonea, di per sè, a legittimare una sua contestazione in giudizio.
 
Occupazione illegittima e obbligo di restituzione dell’area: costituisce uno dei temi di maggiore ricorrenza nelle controversie in materia espropriativa che ha ormai trovato una sua consolidata posizione – frutto di lunga elaborazione giurisprudenziale – nel principio per cui, riconosciuta la sostanziale equivalenza tra le due tradizionali figure dell’occupazione espropriativa e di quella usurpativa in quanto espressione entrambe di un illecito civile, l’occupazione sine titulo di un fondo non può comportare la perdita della proprietà dello stesso da parte del soggetto che subisce l’occupazione, con la conseguenza che la mancanza dell’indispensabile presupposto dell’atto espropriativo comporta che il privato, durante tutto il tempo dell’occupazione illegittima, può far valere i rimedi restitutori a tutela della proprietà da lui mai perduta.
Pertanto la domanda giudiziale di restituzione dell’area illegittimamente occupata e mai validamente espropriata trova piena condivisione nei principi della materia, anzi rappresenta la sola corretta iniziativa che è riconosciuta all’interessato, non essendo invece praticabile – benché per lungo tempo riconosciuto – il diverso rimedio della domanda di risarcimento del danno pari al valore venale del bene occupato, essendo una tale richiesta contraddetta dalla mancanza di perdita della proprietà del bene da parte del privato, che dunque non può legittimamente richiedere il pagamento del suo valore venale a titolo risarcitorio.
L’unico strumento che può invece precludere al privato di ottenere, anche in giudizio, la restituzione del bene è dato dall’esercizio, da parte dell’amministrazione, dello speciale potere ad essa attribuito dall’art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001, attraverso il ricorso alla c.d. acquisizione sanante.
 
Occupazione illegittima e acquisizione sanante ex art. 42 bis del DPR n. 327/2001: rappresenta uno degli istituti di maggiore novità e interesse nel panorama della materia espropriativa, costituendo il punto di arrivo – dopo svariati tentativi a livello normativo e giurisprudenziale rivelatisi nel tempo incompatibili con i principi a tutela della proprietà privata riconosciuti dal nostro ordinamento e da quello sovranazionale – di un lungo processo caratterizzato dall’esigenza di salvaguardare la destinazione pubblica delle opere costruite dall’amministrazione in violazione delle norme sulle procedure espropriative.
La numerosa presenza di opere pubbliche realizzate in difetto di un legittimo decreto di esproprio, tale da far sorgere il diritto del proprietario ad ottenere la restituzione delle stesse e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, ha indotto il legislatore a istituire, mantenendola entro i termini di compatibilità con i principi generali dell’ordinamento anche sovranazionale, la specifica figura della “acquisizione sanante”, disciplinata dall’art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001.
 Essa consiste nel potere dell’amministrazione, dal carattere ampiamente discrezionale, di acquisire a posteriori la proprietà di un immobile utilizzato per scopi di interesse pubblico che sia stato realizzato mediante una procedura espropriativa illegittima, con contestuale liquidazione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito, oltre al risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo.
Le questioni dibattute sono molteplici, riguardando in particolare (i) il termine ultimo entro il quale può essere esercitato tale potere, specie in relazione alla sentenza irrevocabile che abbia stabilito il diritto del proprietario alla restituzione del bene, (ii) il contenuto della motivazione necessaria a legittimare l’esercizio di tale potere, (iii) la misura dell’indennizzo da corrisponderere al proprietario per il pregiudizio patrimoniale subito, (iv) il giudice competente a conoscere delle opposizioni alla stima delle diverse indennità stabilite dalla legge, riferite al pregiudio patrimoniale e non patrimoniale e al danno per il periodo da occupazione senza titolo, (v) il rimedio giurisdizionale attribuito al proprietario per ottenere dall’ente una decisione esplicita sull’utilizzo o meno dell’acquisizione sanante.
 
Occupazione illegittima e risarcimento del danno: consiste in una situazione patologica della procedura espropriativa che si articola in due distinte fasi: a) l’occupazione illegittima di per sè, originata da diverse possibili cause (in particolare, la caducazione del decreto di occupazione d’urgenza ovvero il protrarsi dell’occupazione rispetto al termine finale previsto da tale decreto), in presenza della quale è assegnata al proprietario la tutela risarcitoria, consistente nel diritto al risarcimento del danno corrispondente al mancato godimento del terreno per il periodo in cui questo è risultato occupato senza titolo, con un ammontare che si traduce spesso, in mancanza di prova di un diverso danno, in una percentuale del valore venale dell’immobile nella sua interezza; b) l’occupazione illegittima alla quale abbia fatto seguito l’effettiva costruzione dell’opera pubblica in difetto dell’emanazione, entro i termini di legge, del decreto espropriativo; configura un illecito permanente che non determina però l’acquisto della proprietà del bene in capo all’amministrazione, non essendo invocabile alcuno dei modi di acquisto della proprietà previsti in forma tassativa dal nostro ordinamento o da quello sovranazionale. La tutela accordata al proprietario è dunque quella restitutoria, che può venire paralizzata solo dalla decisione dell’ente espropriante di procedere all’acquisizione sanante del bene, del quale acquista la proprietà ex art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001.
 
Occupazione “usurpativa” e sua disciplina: pur presentando ormai una sostanziale assimilazione all’occupazione “acquisitiva”, la quale non può anch’essa determinare l’acquisto della proprietà del bene a favore dell’ente espropriante, l’occupazione “usurpativa” mantiene comunque le proprie peculiarità che discendono dalla sua stessa genesi, in quanto creata dalla giurisprudenza per regolare i casi in cui l’amministrazione procede all’occupazione di mero fatto del fondo privato e alla conseguente irreversibile trasformazione in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. A fronte della medesima disciplina sostanziale che regola la figura dell’occupazione “acquisitiva”, sussiste invece una netta differenza sul piano del giudice competente a conoscere delle varie pretese fatte valere dal privato a tutela della sua proprietà, in particolare quelle restitutoria e risarcitoria: considerato, infatti, che l’occupazione “usurpativa” costituisce un illecito permanente in alcun modo ricollegabile all’esercizio di poteri amministrativi, ne discende che l’azione di riduzione in pristino e di risarcimento del danno per tale illecita attività appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non di quello amministrativo (a cui vengono invece devolute le ipotesi di occupazione acquisitiva).
 
Valutazione di area per indennità di occupazione legittima e per risarcimento danno: dopo un lungo e contrastato percorso in sede sia legislativa che giurisprudenziale, si è affermato ormai da tempo il principio per cui, tanto in relazione alle indennità per occupazione ed espropriazione legittime quanto con riferimento al risarcimento del danno per occupazione illegittima (e talora per espropriazione illegittima, pur non determinando questa l’acquisto della proprietà a favore dell’ente espropriante), il parametro unico di riferimento è quello del valore venale del bene sottoposto alla procedura espropriativa.
In particolare, i metodi utilizzati in materia per la valutazione di un’area edificabile sono quello “sintetico-comparativo”, volto a individuare il prezzo di mercato dell’immobile attraverso il confronto con quelli di beni aventi caratteristiche omogenee,  e quello “analitico-ricostruttivo”, fondato sull’accertamento del costo di trasformazione del fondo, nella scelta dei quali opera, in sede giurisdizionale, il potere discrezionale del giudice, tenuto peraltro a orientare la sua decisione verso il metodo improntato a canoni di maggiore  possibile effettività. 
In assenza di adeguati riscontri comparativi, che renderebbero possibile avvalersi del più agevole metodo “sintetico-comparativo”, risulta spesso necessario ricorrere a quello “analitico-ricostruttivo”, la cui struttura porta spesso a dover affrontare complesse e delicate questioni di natura tecnica e giuridica, tra le quali meritano attenzione (i) il valore da riconoscere all’indice fondiario di edificabilità ovvero a quello territoriale, (ii) il criterio temporale di riferimento in ordine alla valutazione del fondo, (iii) la distinzione tra vincoli “espropriativi” e vincoli “conformativi” ai fini della valutazione del fondo, (iv) la suddivisione in zone urbanistiche del territorio comunale e la loro incidenza diretta e indiretta sulla valutazione delle relative aree, (v) la rilevanza, ai fini della valutazione di un’area, delle prescrizioni edificatorie contenute negli strumenti urbanistici attuativi.
 
Configurabilità o meno dell’usucapione pubblica: argomento di sempre maggiore interesse, che trae origine in materia espropriativa dal fenomeno assai diffuso dell’illecita occupazione del bene da parte dell’ente espropriante, tale da indurre a considerare, in una prospettiva di favore per quest’ultimo, se in presenza delle condizioni richieste dalla legge l’amministrazione possa legittimamente invocare  l’intervenuta usucapione ai fini dell’acquisto della proprietà del bene.
Gli ampi dibattiti finora intervenuti sembrano aver trovato un approdo nella consolidata giurisprudenza che nega in modo netto il possibile verificarsi di un simile effetto, sulla base di alcuni concetti giuridici: a) assenza dell’elemento dell’“interversione del possesso”, necessario ai fini dell’usucapione; b) presenza dell’elemento ostativo della “violenza del possesso”, alla luce del principio per cui sussiste la volontà contraria del possessore ogni qual volta manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso; c) apprensione materiale del bene da parte dell’amministrazione, che ove avvenga fuori da una legittima procedura espropriativa o di acquisizione sanante non può integrare il requisito del “possesso utile” ai fini dell’usucapione; d) quantomeno sino all’entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001, in cui il privato non avrebbe potuto far valere il proprio diritto alla restituzione del bene, il relativo periodo antecedente non potrebbe comunque valere ai fini del computo del termine per la maturazione dell’usucapione dell’area, in quanto non sussisterebbe l’elemento del comportamento inerte del proprietario, cioè del mancato esercizio delle condotte materiali o delle iniziative giuridiche che dimostrino il suo interesse a mantenere la titolarità del bene.

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